Benvenuti tra i miei scarabocchi d’inchiostro.

Ogni scritto è disconnesso dalla linea temporale, sono respiri fuori dal tempo,
un modo per restare un po’ di più, dove il cuore aveva già deciso di fermarsi.

Nel silenzio dell’opera.

Era forse il millesettecento quando le luci dell’opera, addestrate a mostrarne l’intera bellezza architettonica, mi affascinarono. Era il giorno di Natale e quel gigante di pietra di fronte a me non ne lasciava intuire nemmeno lo spirito.

Fu in quella notte fredda, solo, mentre l’aria mi frecciava alle orecchie, che quel pensiero prese forma. Camminavo a passo misurato, il cappotto scuro sulle spalle, i guanti serrati tra le dita: un gentiluomo, o almeno ne ero l’ombra.

Quando varcai la soglia del teatro, i miei occhi non si posarono. Inquieti vagarono senza sosta, smarriti tra tanta bellezza che li circondava.
Quell’attimo mi frantumò i sensi.
Fermo sotto la cupola, la sua architettura, come una preghiera, mi fece sollevare lo sguardo, incredulo, su ciò che forse ogni umano ormai aveva trascurato. Sfiorato e dimenticato.
Ogni fregio, ogni curva mi ricordava la piccolezza dell’uomo e il suo eterno, ardito, temerario e fragile tentativo di giocare a fare Dio.

Era devozione, o solo desiderio di grandezza?

La sala cominciava a riempirsi lentamente e le persone parlavano come se recitassero a loro volta: voci educate, brevi risate, persino gli inchini erano precisi.
La scelta delle parole, il tono adeguato, il sorriso di cortesia salvaguardavano le loro apparenze con una grazia quasi commovente, lasciando a me il tragico compito di una platea che applaude alle finzioni impeccabili.

Tutto in quel teatro ricordava il purgatorio.

Mani che si muovevano appena, sguardi che controllavano chi ascoltava; le stesse persone che, poco lontano, avrebbero cambiato volto, e con quelle bocche i complimenti si sarebbero trasformati in giudizi sottili come lame affilate.

Osservavo.

Un gruppo di uomini discuteva con entusiasmo composto, quando una coppia lì vicino attirò il mio sguardo. Lui, fiero del nome che portava e della posizione sociale che lo proteggeva, indossava un abito magnifico, come cucito sulla sua stessa pelle. L’eccesso di aspettative altrui lo rendeva vuoto, come una bambola di pezza esposta al momento giusto ma che nessuno davvero notava.
La sua fidanzata scivolava accanto a lui con un sorriso di velluto, danzando intorno al compagno come un gioiello destinato a farsi ammirare mentre un’ombra di ribrezzo velato trapelava dal suo gesto misurato.

Avevo dimenticato quanto fosse fragile l’eleganza quando quella si riduce a finzione.

L’opera traboccava di questi stessi volti, ammassati come un gregge, sospesi tra l’attesa e il destino inevitabile.

Mi sistemai nel cuore della platea, esattamente nel suo centro, e mi adagiai sul morbido tessuto della poltrona. Il brusio persisteva, storie diverse si intrecciavano nelle voci altrui. Programmi sfogliati, ultimi commenti sussurrati con urgenza inutile.

Natale, pensai, era anche questo? Un patto silenzioso nel sostenere che tutto fosse come avrebbe dovuto essere?

Poi finalmente accadde. Le luci cominciarono ad affievolirsi e la sala si consegnò alla penombra.
Le voci si raccolsero nel silenzio e i volti si dissolsero.
Il buio prese per mano l’intera sala, che parve restare senza fiato.
In quell’istante chiusi gli occhi.

Inspirai a fondo.

Per la prima volta, quella sera, nessuno chiedeva nulla.
Nessuna apparenza da sostenere, nessun ruolo da onorare.
Solo il silenzio che desideravo ardentemente.
Provai una pace improvvisa, quasi colpevole, come se il buio avesse il potere di rendere tutti uguali.

Il sipario si aprì e l’attesa scomparve.

La musica fluiva nelle mie orecchie mentre sul palco le passioni non venivano giustificate e il dolore sembrava avere ancora una voce.
L’opera prendeva vita e solo nel buio, davanti a una storia che non era la mia, mi concedevo finalmente di sentire.
Forse era per questo che ogni Natale mi trovavo lì.

Aprii gli occhi.
E con essi qualcosa che mi lasciò senza parole.
Non fu la musica, né l’insieme: fu il volto di una giovane donna a catturare la mia attenzione.

Le sue ciglia, le labbra rosate… I suoi occhi…
Che meraviglia…

Non cercava lo sguardo di nessuno, eppure mi rese impossibile distogliere il mio da lei. Il suo corpo seguiva la partitura con naturalezza, come se ogni gesto fosse nato prima ancora del suono.

Mi irrigidii. Più la guardavo, più mi sembrava che qualcosa dentro di me cedesse.
Dimenticai il teatro, le apparenze, le maschere e il purgatorio elegante che avevo descritto con tanta sicurezza.
Mi accorsi di stringere le mani, di temere ogni nota finale.

Questo sentire mi spaventò, perché era il mio.

Volevo soltanto restare lì, immerso in quell’attimo, con lei davanti agli occhi.

Dopo tanti Natali trascorsi in quella stessa sala, osservando e trattenendo, quella sera fu diverso.
Sentii che era permesso a qualcuno come me — a me — lasciarsi travolgere, oltre dalla musica e la bellezza dell’opera stessa.
Il volto della giovane donna svanì dal palco; la musica continuava.

L’attesa che tornasse mi divorò.
Mi lasciò il dolce gusto del desiderio di voler essere amato

Inspirai profondamente, assaporando il ricordo del suo sguardo, e per un piccolo ma eterno lasso di tempo non mi sentii più solo.


Chiusi gli occhi, sorrisi appena, e nel buio, per una sola notte, mi sarebbe bastato quel ricordo, lasciando, per la prima volta, che il Natale sentito fosse anche mio.

J.

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